Bocconi del prete

Senza desideri rimossi non emerge nessuna forma di angoscia demoniaca. Nessun diavolo. Nel mio “sregolato”  vivere cristiano, di uomo fragile, non riesco a dare spazio alla mortificazione della gola e del corpo. Per farmi assolvere da sta turbe monastico-svago-lecita del senso,  penso che la bontà dei piaceri, (agro-alimentari), che ci aprono al mondo, creati da Dio, è sempre stata compresa. E che il rapporto felicissimo del cristianesimo col cibo è stato plasmato dalla nostra spiritualità cattolica: l’unica religione che non ha nessuna proibizione alimentare. D’altronde il sentimento del gusto, quelli del clero, l’hanno sempre coltivato. Probabilmente perché in passato i suoi esponenti potevano permettersi cibi a cui la gente comune non aveva accesso. L’idea popolare che la gente ha del prete, considerato una personaggio di rispetto, di prestigio, un punto di riferimento, ci insegna che il prelato ha una spiccata conoscenza dei segreti di cucina ed è un buongustaio. Lo dimostra anche il fatto che quando un fedele vuole gratificare il proprio parroco il più delle volte sceglie un prodotto agro-alimentare. Il prete, rappresentante della chiesa e quindi del cristianesimo, è  sempre stato considerato un conoscitore sottile delle qualità e delle squisitezze delle pietanze, delle sostanze, degli ingredienti, dei condimenti che compongono i cibi. Il prete sa scegliere e godere le parti migliori, più delicate, più appetitose. Basta considerare che per il prete di una volta le tappe del calendario liturgico (san Martino, Natale, Quaresima, Pasqua….), vengono preavvertite nella coscienza e depositate nella memoria mediante il ricorso agli odori e ai sapori del mondo commestibile, risentite come momenti del calendario agrario attraverso i sensibili lunari del ventre. Ne è anche prova più recente l’elogio al mangiare e bere  predicato in chiesa da un prete di Piacenza durante l’omelia di Natale di un paio d’anni fa’. Se  scavo più a fondo, nel gergo e nello stile della comunicazione dl cibo nel nome di Dio, mi si apre anche qui un immenso panorama di detti e prodotti che hanno a che fare col prete. Che danno senso all’immaginario culinario di fantasie e sogni di cibi, tempo fa irraggiungibili dalla gente comune. L’espressione “boccone del prete”, per esempio,  viene usata per indicare la parte più prelibata del pollo riferendosi a chi se lo gustava su tutti. Il “boccone del prete”, per noi uomini “regolari”  è il culo, (per gli altri il posteriore, il sottocoda…), una ghiottoneria delicata, misurata ed elegante che una volta finiva spesso, e prima, nel piatto dei prelati.. Il “cappello del prete”, altro riferimento goloso dedicato, è un taglio di manzo o di vitello ricavato dalla spalla dell’animale che deve il suo nome alla sua forma vagamente triangolare che ricorda il tradizionale copricapo che veniva indossato appunto dal prete.  Io invece mi ricordo che da “gagno” ho fatto incetta dei confortanti “bottoni  del prete”. Le gustosissime caramelle gommose di liquirizia alla violetta che al cinema Sant’Andrea di Bra venivano fuori da un’ampolla di vetro, pesate e vendute a poche lire. Girando sul web alla ricerca di conferme ho scovato un articolo di un frate domenicano intitolato “Buon pastore buongustaio” dedicato al grande vescovo di Milano. “Sant’Ambrogio –  dice questo articolo –  non fu solo una guida coraggiosa della sua città e una straordinaria mente teologica per la Chiesa, ma anche un palato raffinato che lodava Dio ricordando che le specie di tutti gli esseri che abitano la terra e le acque sono cibi squisiti”. Parola Di Dio! 

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