Mela Piena

Stiamo diventando una società di creduloni iper-informati. Sappiamo un po’ di tutto, ma la realtà ci sfugge di mano. E’ metà mattinata. Sto sbucciando una mela col mio solito stile sfidante: creare un unico grande ricciolo di buccia senza levare mai il coltello dal frutto. Mentre lo faccio il pensiero si concentra sulle miriadi di detti, significati e miti fantastici che ruotano attorno alla mela. Me ne vengono in mente uno dietro l’altro: una mela al giorno toglie il medico di torno, la mela del peccato, la mela di Newton, quella di Guglielmo Tell, quella di Biancaneve … Il frutto dell’immortalità che Ercole riesce a conquistare nel giardino delle Esperidi, ma anche il “pomo della discordia” che scatena la guerra di Troia… Nella simbologia più moderna, la “Grande Mela” con cui New York è conosciuta in tutto il mondo, Apple la casa discografica fondata dai Beatles e cosa significa oggi Apple nel mondo. Ma soprattutto, mi vengono in mente tutte le analogie legate in modo strettissimo a questo frutto. Soprattutto i suoi addobbi erotici. Così, nel mare anfibio degli emblemi “naufragar m’è dolce”, mentre mi esercito nella mia sfida, sbucciandola. Frutto a double face, sacro e profano, la mela si offre ai miei pensieri che virano sulla sua variegata identità, simbolo denso di significati di segno opposto, contrastanti fra loro, anche ambigui. E il ribaltamento dei significati su sto frutto finisce per alimentare l’area delle allusioni e delle associazioni, debordando nella sfera dei miei talismani erotici. D’altronde è la storia che ce la consegna come simbolo sferico di seduzione, frutto bifronte, emittente dai molti allusivi richiami afrodisiaci. E il primo riferimento che sciabolo è l’allucinato analogico paesaggio di nature, dalle mele alle natiche femminili, attestato dalla lirica cinquecentesca, “…. non trovo con ragion chi si querele di lei (cunnus), se non qualcun altro ch’ha torto il gusto dietro e le pesche over dietro alle mele”, (Francesco Maria Molza). A seguire il suo disegno morbidamente piacevole, descritto dal Boccaccio nel Decamerone (III, 4, 6)…” La moglie, che monna Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana…”. E poi ancora quello di Giovanni Narinelli che nei suoi “ornamenti delle Donne” sottolineava che il frutto tumescente, oltre le delizie del gusto, stimolava i piaceri del tatto, “…. sono le piccole, tonde, sode e simili a due rotondi e belli pomi; vogliono alcuni ch’elle non siano troppo attaccate, né troppo piccole e del colore che tiene il seno…”. .  Ma in questa ampia area di sensualità itinerante la più fantastica, forma di valorizzazione “pornogastronomica” dedicata alla mela che mi balza in testa, è quella che le dedicò il mio amico Giovanni Ruffa – erudito, maestro, esploratore degli enigmi del mondo materiale e non solo – che nel lontano 1988 fondò la condotta enogastronomica di Arcigola denominata Circolo della “Mela Piena” del Monferrato Astigiano. Traducete il virgolettato in dialetto piemontese e troverete un ecumenico trattato di sociologia, un’immagine artistica sulla mela realizzata ad opera d’arte. Dove in essa si consegue la massima incisività del frutto proibito sia nei processi formativi umani, sia nella sua utilizzazione per un fine estetico culturale. Lo statuto dell’immagine che informa meglio sul valore della mela, non è stato posto da un filosofo né da una corrente di pornoromanticismo. No! Curiosamente, a rendere spumeggiante la paludata prosa sensuale sulla fenomenologia del gusto dedicata alla mela è stato Giovanni Ruffa, un goliardico contadino-poeta-scrittore, piemontese, che,  su quell’antico dibattito linguistico sull’abisso delle meraviglie della mela, ha reso possibile la sua legittimità, morale e non-morale, sacra e non-sacra, artistica e non. In una fantasia naturalistica vegetal-sessuale nella quale, il frutto proibito, pieno, diventa il piacere dei sensi, identità, propaganda politica e ideologica gourmet, pubblicità e cultura. Viva la mela piena!

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